sabato 9 aprile 2011

Unità di che?



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Può sembrare banale ricordare la propria vita, come se si stesse chiedendo un qualche favore a qualcuno. Mio bisnonno (classe 1854) è migrato negli USA (miniere di ferro del Michigan), mio nonno (classe 1881) lo stesso, mio padre (classe 1924) è migrato in Belgio, ed io per un pelo sono rimasto nel sistema Italia facendo l’insegnante e passando per quella ristrettissima finestra aperta, in termini di tempo, che è stato il post ’68 in cui le capacità potevano essere ancora fatte valere. Ma la storia si ripete, mio figlio (classe 1986) se n’è andato a Buenos Aires a studiare teatro e cinema (qui non si poteva entrare in alcuna istituzione degna di questo nome senza la classica spinta).
Si dice che bisogna amare il proprio paese che, in questo caso, dovrebbe essere quello che va dalle Alpi in giù, fino a Lampedusa, cioè l’Italia. Ma io, pur amandolo, non mi sento particolarmente italiano (sono nato in Belgio e ho sposato una francese), nè me ne vergogno affatto, ci sono tante ragioni culturali e umane che mi sostengono. Ovunque vada, mi capita di sentirmi ridacchiare dietro per le vicende italiane, non solo di Berlusconi, ma anche della mafia, e di quanti con essa sono andati a braccetto o hanno scambiato baci con i loro capi. E quante barzellette poi, ho ascoltato sulla storia dell'unità d'Italia dalle elementari in poi, da quelle del Re e di Garibaldi fino a quelle più attuali, passando per le conquiste coloniali! Verità altisonanti e vuote proprio perché artefatte da chi le ha fatte. E in Francia non mi sento meglio quando vedo Monsieur le Président estasiato per la Marsigliese, sapendo cosa hanno fatto a suo tempo in Algeria e Indonesia. Quanta trombonaggine ipocrita! E questo centocinquantesimo mi pare come il centoquarantanovesimo, come il centoquarantottesimo e, forse, sarà come il centocinquantunesimo.
Non mi sento nè italiano nè altro, né di un partito né tanto meno di un sindacato, né soffro di mancanza di identità, e mi sento un pò estraneo ovunque e abbastanza bene dappertutto. Sono un senza terra e, antropologicamente parlando, sono uno senza radici.
Quanto, poi, alla generazione di mio padre, 4 fratelli, in 3 hanno fatto un totale di 16 anni di guerra, uno nel campo di concentramento di Bokum (mi pare presso Francoforte). Io stesso sono nato in un campo di concentramento di Charleroi (Belgio) nel 1953, dove mio padre si vide assegnato un alloggio nel 1952, erano gli alloggi degli italiani, mandati da De Gasperi per un carrello di carbone, che mettevano su famiglia.

Le mie non sono radici di terra, ma d'aria, quell'aria un pò razionale e un pò da sogni, quell'aria che dal '400 si respira nell'occidente, passando per le infatuazioni di una democrazia che promette da due secoli libertà, uguaglianza e fraternità, ma che finora non si è data molto da fare per realizzarle dalle nostre parti, e ancor meno là fuori, dove si colloca un fantomatico terzo mondo. E, tuttavia, sono fortemente ancorato a quel mondo e alla sua cultura, e non riesco a fare comunella con le combriccole che ci sono da tutte le parti, quei furbetti del quartierino, quei compagnucci della parrocchietta che infestano il vivere civile da ogni parte e, soprattutto, in Italia. Aggiungi la classe politica che a chiamarla "sanguisuga" gli si fa un complimento.
Cosa dovrei amare di questo sistema paese? Non lo so proprio, e a 58 anni non me lo chiedo neanche più. Non ho analisi profonde da fare, ma da coltivare la memoria di tanta ingratitudine che ho visto, questo lo faccio, e anche oppormi a tutto ciò lo faccio.